
L’arte è l’istante – «brevissimo» – in cui accade l’esperienza di ciò che desideri. Ma, intendiamoci, non della risposta che mette l’anima in pace: perché la poesia non è il cielo delle risposte ma la terra delle domande; non congela messaggi ma fa bruciare ferite. Virgilio per Dante è stato esattamente questo coltello di nostalgia del Paradiso: immagino che quando Dante lo leggeva gli si riaprisse, dentro quel carcere che poteva chiamarsi esilio, uno spiraglio di paradiso. La poesia non fu, appunto, la luce del Paradiso, quanto il filtrare del sole che lo tirò fuori dalla selva oscura, ricordandogli che non le apparteneva, e riaccendendo quella «speranza de l’altezza» che normalmente sonnecchia. Non fu nemmeno la guida verso il Paradiso, bensì nell’inferno e nel purgatorio. Ossia nella realtà più concreta e drammatica: la cui tristezza te la incolla addosso come mai prima, con la spina nel fianco, però, di un desiderio di felicità che ora, per imprevista commozione, non si può più ignorare.
È proprio il contraccolpo della bellezza, prima di ogni contenuto specifico, a suscitare la nostalgia: come se quell’istante svelasse per quale «altezza» è fatta l’anima. Lo ha descritto acutamente Joseph Ratzinger, parlando dell’«incontro con la bellezza come quella scossa emotiva salutare che fa uscire l’uomo da se stesso, lo “entusiasma” attirandolo verso altro da sé». Cosa accade, infatti, ascoltando Mozart o leggendo Virgilio? Che «la bellezza lo strappa fuori dall’accomodamento del quotidiano. Lo fa soffrire. Noi potremmo dire, in senso platonico, che lo strale della nostalgia colpisce l’uomo, lo ferisce e proprio in tal modo gli mette le ali, lo innalza verso l’alto».
È un innalzamento vertiginoso, perché la nostalgia, succedendo nel profondo, chiama a un’altezza (secondo l’ambivalenza dell’altum latino): un abisso che genera vertigine. Le parole, infatti, ci proiettano oltre di loro, fra le cose che evocano. Guai a fermarsi alle parole, senza accorgersi che esse inseguono, tesissime, l’essere di cui parlano.
Come mi accorgo di aver letto Furto in una pasticceria di Italo Calvino? Se, impregnati i sensi da tutti quei dolci e quei profumi, vengo assalito dalla fame.»
Valerio Capasa
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