Riceviamo dal nostro Giordano il suo commento al più recente gruppo d’ascolto:
(Lc. 18, 9-14) 9Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. 14Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».
Dopo aver letto il testo del sussidio diocesano e due o tre altri trovati in rete, ho deciso di seguire la traccia di un articolo comparso nel 2008 su Tracce. L’autore è Josè Miguel Garcia, di cui parecchi anni fa ho letto un libro, che mi aveva interessato molto: ‘La vita di Gesù nel testo aramaico dei vangeli’.
Nel brano che abbiamo davanti Garcia individua una difficoltà: quello che conosciamo dei farisei rende poco probabile che uno di essi tollerasse la compagnia di pubblicani, meno che meno quando saliva al tempio per pregare; essi evitavano con cura scrupolosa il loro contatto. Il nostro testo, d’altra parte, non dice mai esplicitamente che i due uomini si recarono insieme al tempio. L’unico dato che sembra suggerirlo è rappresentato dalle parole della preghiera del fariseo: «Ti ringrazio che non sono […] come questo pubblicano». Nell’aramaico al dimostrativo “questo, quello” si deve attribuire piuttosto il valore del nostro articolo indeterminato “uno, una”. Applicando questa regola alle parole della parabola, la traduzione sarebbe: «Oh Dio! Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini: ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come un pubblicano».
Nulla indica che il fariseo sappia che, mentre sta pregando nel recinto più interno, anche il pubblicano sta pregando. Anzi, si potrebbe dedurre il contrario: se il pubblicano si ferma “a distanza” (v. 13), e se si tiene conto che gli atri del tempio di Gerusalemme, separati da balaustre, occupavano un’ampia spianata, si può logicamente supporre che il fariseo non vede il pubblicano, neppure sa che è nel tempio.
La preghiera attribuita al fariseo non è una caricatura: la posizione in piedi non indica orgoglio, ma è la postura normale degli ebrei durante l’orazione; possiamo ridimensionare anche il giudizio sul contenuto, considerando le somiglianze con quello di una preghiera ebraica dei primi secoli riportata nel Talmud babilonese:
“Ti ringrazio, Dio mio, perché mi hai dato il mio posto tra coloro che sono seduti nella scuola (dove si insegna la Legge), e non tra quelli che stanno seduti nelle strade; io mi alzo all’alba ed essi si alzano all’alba: io per (ascoltare) le parole della Legge, essi per (andare a fare) cose vane … ». Come l’orante ebreo che pronunciava questa preghiera, il fariseo della parabola di Gesù attribuisce appropriatamente la sua virtù, il suo camminare sulla strada buona, a Dio.
Se togliamo dall’orazione del fariseo il riferimento diretto al pubblicano, come se questi stesse pregando a pochi passi da lui, viene a cadere buona parte della malizia del fariseo, la sua superbia insolente, che lo porta a disprezzare il pubblicano al cospetto di Dio.
Il fariseo dice la verità: rende grazie anche per le sue pratiche religiose, effettivamente fuori dal comune, perché la Legge imponeva il digiuno una volta all’anno, il giorno dello ‘Jom Kippur’ (espiazione) e alcuni ebrei lo praticavano in altre due occasioni annuali. Il fariseo va ben al di là, per espiare i peccati del popolo. La decima, poi, era richiesta al venditore per frumento, olio, vino e primogeniti del bestiame: lui, per essere sicuro, la paga su tutti i prodotti della terra.
Può considerarsi dunque un uomo pio, ma proprio in forza di questo egli non attende nulla da Dio, anzi si ritiene in credito verso di Lui: questa è la sua ‘ingiustizia’. Sembra salire al tempio unicamente per dirsi, come davanti a uno specchio, quanto sia contento di essere a posto, per auto gratificarsi degli sforzi compiuti per osservare tutte le regole e i comandamenti del Signore.
Il pubblicano ha chiara coscienza delle sue colpe. La Palestina ai tempi di Gesù era sotto la dominazione di Roma che imponeva agli israeliti il pagamento di varie imposte (di pedaggio, di dogana, di pascolo e altre), la cui riscossione i romani appaltavano spesso agli stessi ebrei. I romani per ogni zona fissavano un ammontare complessivo e chi si aggiudicava l’asta in seguito poteva rifarsi con ogni mezzo sui contribuenti, cercando ovviamente di guadagnarci. Il semplice contatto con un pubblicano era considerato una forma di impurità legale perché gli esattori delle tasse erano collaboratori dell’Impero Romano e quindi erano spesso a contatto con i pagani. I pubblicani erano ritenuti persone disoneste che, divenendo ricche a spese dei compatrioti, rendevano ancora più gravoso il giogo dell’oppressione romana; al punto da essere considerati pubblici peccatori, al pari delle prostitute, degli adulteri e dei pagani.
Anche la descrizione dell’atteggiamento del pubblicano è più espressiva se si legge alla luce dell’atmosfera palestinese. Si dice, in effetti, che non osava neppure alzare gli occhi al cielo; tra le righe si può leggere: e ancor meno osava alzare le mani nella posizione consueta degli ebrei durante la preghiera, in uso ancora oggi in Oriente. Prega a capo basso e con le mani sul petto, battendosi. Questi colpi sul petto non sono un gesto consueto durante la preghiera: esprimono un forte dolore interiore, una disperazione prodotta dal sentimento della lontananza di Dio. La condizione del pubblicano e della sua famiglia è disperata: per lui, il pentimento comportava l’abbandono della vita da peccatore, del suo mestiere, e inoltre la riparazione, che consisteva nella restituzione di ciò che aveva sottratto, più un quinto del valore, come prescriveva la legge giudaica. E come poteva sapere e rintracciare chi aveva defraudato? In queste condizioni, il suo supplicare la misericordia di Dio è disperato.
La conclusione di Gesù: «Io vi dico: questi – il pubblicano – tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro – il fariseo -, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» è sorprendente, per quelli che, come si dice nell’introduzione della parabola «presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri» (v. 9), ossia gli scribi e i farisei. Essi, per il fatto di essere ebrei devoti e osservanti della Legge, potevano avere fiducia in se stessi invece di riporla nella bontà di Dio.
Per comprendere perché Dio agisce in modo così sorprendente e perfino, secondo gli ascoltatori di Gesù, ingiusto, è utile considerare che la giaculatoria del pubblicano è una citazione. Recita le prime parole del Salmo 51, aggiungendovi soltanto “di me peccatore”: “Dio mio, abbi pietà di me peccatore” (v. 13). Ma nel Salmo 51 si dice: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (v. 19). Così il Dio di Gesù dice “sì” al peccatore disperato e “no” al giusto che si considera tale e la sua misericordia verso chi ha il cuore spezzato è illimitata.
In questa parabola dunque Gesù risponde a coloro che lo accusano di accogliere pubblicani e peccatori: Dio è anche il Dio dei peccatori disperati; la sua misericordia verso questi uomini, con il cuore schiantato, è immensa. Come Gesù, Dio riserva l’accoglienza a uomini doppiamente bisognosi: subiscono il disprezzo degli altri uomini, e sentono che Dio tiene chiusa la porta che li porterebbe a lui.
La preghiera del pubblicano è molto simile a quella che il figliol prodigo rivolge a suo padre: «Padre … non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni».
Allo stesso modo l’atteggiamento dello spirito del fariseo è molto simile a quello riflesso dalle parole del figlio maggiore al padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici». Gli scribi e i farisei si ribellano all’idea che Dio possa concedere il perdono a peccatori imperdonabili. La risposta del padre non nega le verità contenute nelle parole del figlio; senza un minimo di giustizia, i rapporti tra gli uomini, anche in seno alla famiglia, sarebbero impossibili. Ma per l’amore generoso del padre, la priorità è che il figlio morto resusciti a vita piena. Gesù dice: l’unica cosa che può ostacolare il perdono di Dio, la sua misericordiosa bontà, è il cuore dell’uomo, la sua resistenza al pentimento.
Meditazione personale
1. Avverto insorgere in me una insidia sottile nel disapprovare il fariseo. Quella di ritenermi in modo automatico vicino al Signore per il semplice fatto di considerarmi cristiano, cioè di essermi messo dalla parte di Gesù, che ha smascherato nel fariseo la lontananza da Dio. Un tale senso di sicurezza contiene lo stesso pericolo in cui navigava il fariseo.
Tuttavia è pericoloso anche identificarmi nel pubblicano, perché mi devo pure chiedere se sarò davvero capace della stessa umiltà e dello stesso pentimento.

2. C’è un sentimento, che a parole detesto, ma che rimane in me pronto a emergere più o meno mascherato: l’invidia! Ricordo la parabola degli operai chiamati a lavorare nelle vigna a diverse ore del giorno: quelli della prima ora si lamentano che gli altri, che han faticato meno, hanno preso un denaro come loro. ‘Siete forse invidiosi perché io sono buono?’- chiede loro il padrone alla fine. Da dove nasce questa invidia? Dal pensare che la salvezza è un merito, una ricompensa per le mie opere buone e non invece pura grazia.
Ma, allora – mi chiedo – perché fare il bene?
Mi pare di poter sintetizzare così la risposta: per esprimere nei fatti che mi sento felicemente figlio di Dio e desidero proporre a tutti questo atteggiamento del cuore che ho ricevuto in dono e che sento prezioso.
3. La coscienza di essere peccatori: paradossalmente – l’ha detto più volte il papa – è utile, anzi persino indispensabile. Mi è venuta in mente una immagine: non esiste una terra di nessuno fra l’atteggiamento umile e quello orgoglioso; non mi è possibile essere neutro, ossia né umiliato dal mio limite, dalla mia fragilità, dal mio peccato, né orgoglioso, superbamente autosufficiente. Persino lo scoraggiamento ha la sua radice nel mio delirio di autosufficienza. Come pure la pretesa verso gli altri, che intristisce le mie relazioni.
4. La mia ultima resistenza è dire: ‘OK, amico: il pentimento è necessario. Però, alla fine, il pubblicano dovrà cercare di restituire il mal tolto, no?’
Riparare il male fatto … Mi basta pronunciare queste parole per sentirmi angosciato, diviso fra due ipotesi: rimboccarmi le maniche (fino alle ascelle!) e mettermi a fare i conti della riparazione con la precisione del fariseo, o lasciar perdere tutto, tanto Dio mi perdonerà. Credo che una terza via sia quella giusta per riparare veramente il male fatto: portare fino in fondo il dolore del bene tralasciato, lasciarsene quasi macerare, così che si dissolva quello che è lo zoccolo duro che sta al centro della questione come io l’ho impostata: il mio io. Se riesco, invece, a posizionare Dio al centro, ad acquisire la consapevolezza che è anzitutto con Lui il mio debito, realizzo che non si tratta tanto di “mettere a posto” le cose e, con le cose, la coscienza. La giustizia che origina soltanto da me è incapace di misericordia verso me stesso prima ancora che verso gli altri. Invece con Uno che è sempre disposto a perdonare non valgono i sensi di colpa, ma la legge del dare gratuitamente, liberamente e senza misura.