Officina: Tutto è perduto? La speranza è ancora possibile? (1)

pianista2

Il mio contributo inizia con una parte della Storia di una Famiglia amica di Roma. Si intuisce, senza bisogno di troppi commenti, il percorso faticoso con una Speranza da compiere…

Stacce! 

di Stefano Bataloni

Quando eravamo ragazzi succedeva spesso che nel gioco fossimo sconfitti, nelle gare sportive arrivassimo secondi o peggio, che perdessimo una scommessa. In quei casi, almeno qui a Roma, poteva succedere che chi vinceva o chi arrivava primo, con tono talvolta sprezzante, si rivolgesse a noi dicendoci: “Stacce!”, e la cosa non m ancava di scatenare in noi non poche arrabbiature e risentimenti se non , qualche volta, veri e propri istinti di vendetta. Era una espressione che talvolta feriva profondamente il nostro orgoglio.

“Stacce” è un termine romano che sostituisce il più corretto “ci devi stare”, ma nel suo significato più ampio rimanda alla accettazione di un evento o di un risultato che noi giudichiamo negativo.

Crescendo ci accorgiamo che situazioni simili a quelle che vivevamo nell’adolescenza si ripetono in continuazione, anzi forse i primi “stacce!” non sono altro che la preparazione di quelli che ci sentiremo rivolgere da grandi.

Molto più frequentemente, però, a rivolgersi a noi con uno “stacce!” è la vita stessa: per quanto impegno ci avremo messo, per quanto saranno stati grandi i nostri sforzi, per quanto brillanti fossero le nostre iniziative e abili le nostre esecuzioni, prima o poi uno “stacce!” arriva quando le cose non sono andate come programmato, come sperato.
A volte lo incassiamo con leggerezza, altre volte può essere molto dura, ma capita in tante occasioni.

Quando perdi le chiavi di casa, stacce!
Quando perdi il treno, stacce!
Quando per arrivare in ufficio impieghi il doppio del tempo normale a causa del traffico, stacce!
Quando ti rubano l’auto, stacce!
Quando il tuo lavoro non viene apprezzato, stacce!
Quando torni a casa dopo una giornata di lavoro e sei distrutto ma devi metterti ai fornelli, stacce!
Quando arriva la febbre il giorno del tuo compleanno, stacce!
Quando cerchi di spiegare le tue opinioni e nessuno sembra ascoltarti, stacce!
Quando il tuo collega di lavoro ti mette i bastoni tra le ruote, stacce!
Quando un amico ti dà buca, stacce!
Quando perdi il tuo lavoro, stacce!
Quando i soldi a fine mese non bastano mai, stacce!
Quando intorno a te in tanti cominciano a mentire, stacce!
Quando i tuoi figli non ti danno ascolto, stacce!
Quando i tuoi figli lasciano la tua casa per intraprendere la loro vita, stacce!
Quando muore uno dei tuoi nonni, stacce!
Quando muore tua madre, stacce!
Quando si ammala tuo figlio, stacce!
Quando il cancro si porta via tuo figlio, stacce!

Ho capito, però, che “stacce!” non significa affatto accettare passivamente quello che ci succede, non significa solo chinare la testa. Stacce!, per me, non significa fare “buon viso a cattiva sorte”, non significa credere che tanto la sfiga ci perseguita, che il Padre Eterno ce l’ha con noi o che noi siamo sbagliati e che allora dobbiamo arrenderci e perdere la speranza.

A volte “stacce!” significa proprio alzarsi e lottare, aggrapparsi e urlare, riaffermare ciò che è vero, raccogliere i pezzi e ripartire.

Quando la vita ci sbatte in faccia un bello “stacce!” si può reagire in tanti modi: si può fuggire dalla realtà, ci si può ingannare in ogni modo, si può maledire la sorte, si può odiare Dio… ma in tutti questi casi non c’è scampo alcuno all’oblìo e alla sofferenza senza fine.

Possiamo invece stare sforzandoci di comprendere che noi siamo delle pietre grezze, nelle mani di un Artista che con colpi sapienti elimina tutto il superfluo, e che con quelle pietre, una volta sgrossate e rifinite, costruisce un edificio che dura in eterno.

Possiamo stare sforzandoci di comprendere che ciò che ci succede non è frutto del caso: tutto è stato sapientemente intrecciato e intessuto, per amore nostro, sforzandoci di vedere in quelle difficoltà le luci che guidano il nostro cammino verso la salvezza.

Possiamo stare sforzandoci di comprendere che non è stata tutta una sfiga, ma che un senso tutto ciò che ci accade ce l’ha, anche se non lo vediamo, e ciò che ci accade può essere una grazia.

Possiamo stare chiedendo a Dio la forza di bere quel calice, fidandoci del fatto che sia colmo per noi di una linfa di felicità, che è stata versata per noi, per amore nostro.

Stacce! Invocando l’aiuto di Dio, come Cristo… ma stacce.

fonte: il blog amico Piovono miracoli

Proseguo sovrapponendo la Storia loro, mia, di tutti (posso?), a quella cantata dal nostro don Mario Delpini in particolare nella seconda strofa di questa poesia pasquale. Ci, direi, implora di non fermarci prima dello squarcio del velo del Tempio: il momento della morte del Signore. Propone l’attesa, vigile e attiva, della Resurrezione. Propone la Speranza!

 

Fino allo squarcio

C’è gente istruita al mio paese,

sanno di tutto e di tutto hanno da dire,

decidono dei pensieri che  meritano d’essere pensati

e decretano – addirittura! – se possa esistere un dio

e come se ne possa fare a meno.

Non si stupiscono più di niente:

dovessero anche assistere all’ingiusta condanna del giusto

non sarebbero a corto di argomenti.

Uomini di pensiero e di parola,

non fermatevi prima  dello squarcio:

il velo del tempio si squarcia in due, da cima a fondo (Mt 27,51)

e smentisce chi legge la storia al contrario

e chi si rifiuta di leggere la conclusione,

che è la rivelazione della gloria dell’Unigenito, pieno di grazia e di verità.

C’è gente che grida al mio paese,

gente che impreca e bestemmia e geme,

perché troppo forte è il male e troppo debole il bene,

troppo ingiusta la vita e troppo dolorose le ferite,

troppo greve il presente e minaccioso il futuro.

Non c’è nulla che li consoli:

fosse anche annunciato un Vangelo

sarebbe preso per un’improbabile, inaffidabile favola già sentita e smentita.

Umanità dolente,

non fermarti prima dello squarcio,

entra fino al compimento nel dolore di Gesù:

il velo del tempio si squarcia in due, da cima a fondo (Mt 27,51)

e l’abbraccio di Dio semina nel dolore presente il germoglio del Regno.

C’è gente allegra al mio paese,

gente che ride e scherza e gode la vita,

parlano di tutto e di niente,

non c’è nulla che li commuova

nulla che li faccia pensare,

anche passasse per strada

un condannato  a morte,

sarebbe un argomento per nuove chiacchiere e niente più.

Amici del niente, tutti condannati a morte,

seguite il condannato a morte fino al momento estremo,

non fermatevi prima dello squarcio:

il velo del tempio si squarcia in due, da cima a fondo (Mt 27,51)

e si rivela quanto sia grande la grazia di essere vivi, vivi della vita di Dio.

 

Ho pensato sia rappresentativo dei “percorsi” richiamati sopra questa “clip” tratta da “Il pianista” di Roman Polanski. E’ in lingua originale, sottotitolata in spagnolo; mi piace gustarla così, con un po’ di impegno ad interpretare il dialogo, con un occhio attento sugli occhi del protagonista, troppo grandi nel viso paurosamente scheletrico. Con un occhio attento alla “compagnia gelosa” con il barattolo di conserva. Con un occhio attento alle mani, paurosamente sporche, inizialmente esitanti poi piroettanti sulla tastiera. Il suono ci giunge perfetto, maestoso, puro, come eseguito in frac, dal palcoscenico di un auditorium prestigioso, con un pubblico selezionato. L’uomo, che mi immagino con la lingua amaramente incollata al palato, è, ora, nella sua condizione umana paradossalmente più piena: «Ero… sono pianista». Qui, grazie alla Bellezza della Ballata op. 23 di Chopin, pre-sentendo l’incredibile misericordia del nemico (propiziata dalla musica?), compie ciò per cui è stato creato: un esito di salvezza e resurrezione come sigillo su una speranza vissuta pienamente.

Ecco:

Il pianista esegue Chopin.

Maurizio Dones

3 pensieri su “Officina: Tutto è perduto? La speranza è ancora possibile? (1)

  1. Se la Speranza è “praticata”:

    La paura può trasformarsi in coraggio
    Il dolore può favorire la saggezza
    La sofferenza alimentare la forza

    "Mi piace"

    • Tempo fa, scorrendo i canali della televisione, sono stato attratto dalle immagini di alcune gare sportive. Si trattava, in particolare, del lancio del giavellotto.
      Assistere alla gara del giavellotto è come tornare agli albori dello sport, assaporare l’aria di antiche competizioni. Proprio nell’antichità, lo sport derivava dall’allenamento per la battaglia, dalla preparazione per i combattimenti.
      Le gare odierne non sono lotte contro un nemico, ma sono invece, più spesso, sfide ai propri limiti, battaglie con se stessi per superare i propri personali traguardi. Ognuno cerca di fare sempre meglio della volta precedente, di oltrepassare se stesso, prima ancora di superare l’altro.
      In questa pratica sportiva, come in tutte le altre gare di lancio, ad esempio quella del peso o del disco, la sfida ai propri limiti è evidenziata dalla solitudine spaziale della pedana di gara: l’atleta è lì solo con se stesso, con il suo attrezzo e, di fronte, l’ampio spazio della competizione.
      Quello che mi ha sorpreso, osservando il lancio del giavellotto, è la dinamica della prestazione.
      Mi sarei aspettato che il tiro sia tanto più facile e lontano quanto più il vento è favorevole, come se il vento potesse trasportare più in là l’attrezzo lanciato.
      Dai commentatori, invece, ho ascoltato esattamente il contrario: il vento favorevole non giova alla prestazione del lancio del giavellotto. Un buon lancio è facilitato, invece, dal vento contrario, perché solo l’opposizione dell’aria permette al giavellotto di rimanere sospeso più a lungo, di veleggiare e così di arrivare più in là.
      L’abilità non sta nel lanciare semplicemente “oltre” ma nell’avvertire la corrente d’aria giusta, in opposizione, che mantenga più a lungo possibile in alto il volo del giavellotto.
      Questa stranezza mi ha profondamente colpito. Noi siamo abituati a pensare al vento sfavorevole come ad un’avversità da combattere, come ad una sventura: nel lancio del giavellotto, al contrario, esso diventa un’ottima occasione per andare più avanti. L’avversità diventa un’opportunità da sfruttare più che una maledizione da sopportare.
      Penso che ci sia da riflettere, penso che ci sia un valido suggerimento per la nostra vita in questa curiosità del lancio del giavellotto.
      Nello scorrere della nostra esistenza non sono certamente assenti periodi faticosi e duri in cui le cose non sembrano “veleggiare” per il meglio, in cui sembra che il vento della vita ci sia decisamente contrario. In questi momenti o ci mettiamo a lottare contro queste difficoltà, spesso accumulando rabbie, rancori e risentimenti, o le trasformiamo in occasioni di crescita e di pausa, in cui fermarci per riflettere e riprendere le redini della nostra esistenza, per ritornare a ciò che è essenziale.
      Per essere più chiaro: non sempre una malattia, una disgrazia, una difficoltà, un’incomprensione è solamente e totalmente negativa.
      Se riesco a vedere oltre e a cogliere in essa una nuova opportunità di crescita è come se scagliassi il mio personale giavellotto sfruttando il vento contrario per farmi sostenere da esso. Le contrarietà della vita si possono trasformare in occasioni nuove per trovare strade diverse o soluzioni insperate.
      Nei nostri momenti difficili ricordiamoci del lancio del giavellotto e sapremo trasformare dentro di noi il lamento in una danza; sapremo trasformare tutto: tutto vuol dire proprio tutto, anche ciò che bene non è, anche il vento contrario nel cammino della vita.

      IL VENTO CONTRO

      di Fausto Corsetti

      Nulla è perduto se al nostro fianco avvertiamo la presenza di un Amico Speciale: Gesù.

      Un abbraccioabbraccio affettuoso a Voi tutti.

      fausto

      Piace a 1 persona

Lascia un commento