La bruna e la bionda

25 Novembre, santa Caterina da Alessandria. Martire. E anche giornata contro la violenza sulle donne. Un caso? Chissà…

Mentre ci riflettete seduti comodamente al nostro bancone, scelgo per voi un libro dalla mensola della biblioteca del bar. “Le rose di Atacama”, Luis Sepulveda. Uno dei miei scrittori preferiti. E aprendolo all’ultima pagina…

“Le vedo camminare per Venezia e mi attardo alle loro spalle o le precedo per osservarle meglio, per godermele di più, perché sono entrambe splendide e colmano il pomeriggio autunnale di quella singolare bellezza che le donne acquistano a partire dai quarantacinque anni, una bellezza matura di piaceri e di colpi, di amori assaporati fino all’ultima goccia e di litigi che non si spengono mai.

Non si sono conosciute né in un parco né a un ballo, ma nelle segrete di una sinistra costruzione detta Villa Grimaldi, un luogo che si iscrive nella toponomastica universale dell’orrore e dell’infamia.

Era notte, a Santiago del Cile, quando la bruna fu trascinata fuori di casa, separata a forza di botte dal figlio, condotta a spintoni fino all’auto senza targa, dove con uno straccio le allontanarono il mondo dagli occhi. Ora, venticinque anni dopo, guarda il riflesso del sole nei canali e sorride.

Era notte a Santiago del Cile quando la bionda fu trascinata fuori di casa, separata a forza di botte dal figlio, dal ritratto del compagno assassinato, portata a spintoni fino all’auto senza targa, dove con uno straccio le allontanarono il mondo dagli occhi. Ora, venticinque anni dopo, guarda i piccioni che coprono piazza San Marco e sorride.

Non era né notte né giorno quando la bruna, nuda e tremante dopo i primi interrogatori, si sollevò leggermente la benda che le copriva gli occhi. Tempo morto. Tempo senza misura. La bruna si vide sporca degli ematomi provocati dai colpi, delle bruciature lasciate dagli elettrodi. Allora si morse le labbra e con tutto l’amore del mondo mormorò: “Non ho parlato, non ho detto nulla, non mi hanno vinto”.

Non era né notte né giorno quando la bionda, nuda e tremante dopo i primi interrogatori, si sollevò leggermente la benda che le copriva gli occhi. Tempo sospeso. Tempo senza alcun meccanismo che lo scandisca. La bionda si vide sporca di segni di stivali, la pelle coperta dai marchi delle scosse elettriche. Allora si morse le labbra e con tutto l’amore del mondo mormorò: “Non ho parlato, non ho detto nulla, non mi hanno vinto”.

Le due piansero, certo, ma poco, perché le donne gloriose della mia generazione e della mia storia non hanno permesso al dolore di imporsi al dovere, che allora era organizzare il silenzio, confondere le canaglie in uniforme, resistere. Quando si videro per la prima volta sotto il minuscolo sole a venticinque watt che a tratti illuminava la cella, si cercarono per infondersi calore, un bel calore umano e clandestino, un bel calore cileno e responsabile di militanti che dopo essersi curate reciprocamente le ferite passarono a scambiarsi informazioni su quel poco che avevano visto. “Credo che ci troviamo nel tal posto.” “Uno di quei figli di puttana si chiama Kraff Marchenko ed è una vera belva, fra i peggiori.” “Ho visto che portavano via due compagne che non si muovevano più.” “Non accettare acqua dopo le scosse elettriche.”

Da uno spioncino, i boia le osservavano: crollate, secondo loro, sconfitte, secondo loro. Poveretti! Incapaci di capire che quei due corpi erano una cellula della Resistenza. Ora, venticinque anni dopo, ricordano che parlarono anche di altre cose: “Ti si è sciolto il mascara” disse la bruna accarezzando gli occhi pesti della bionda. “Che rossetto tremendo” disse la bionda accarezzando le labbra tumefatte della bruna. Viaggiarono in cella: fra una seduta di tortura e una seduta di tortura visitarono Roma, Londra, Toledo, San Paolo. Cantarono canzoni di Serrat e di Violeta Parra. Recitarono poesie di Neruda e di Antonio Machado. Cucinarono con le spezie dei ricordi felici.

La bruna era una poetessa e voleva diventare una grande poetessa. La bionda era una giornalista e voleva diventare una grande giornalista. Ora, venticinque anni dopo, Carmen Yáñez, la bruna, vede le sue poesie pubblicate in Spagna, in Germania, in Svezia e in Italia. Marcia Scantlebury, la bionda, vede i suoi articoli stampati in molte lingue.

Le guardo camminare, come sono belle!, mi attardo alle loro spalle o le precedo e mi sembrano ogni volta più belle, mentre i piccioni spiccano il volo al loro passaggio e scrivono nel cielo: salute, compagne!, e un turista giapponese e uno italiano e un altro perfettamente apolide le fissano con sguardo seduttore. Loro ridono e ricordano un tiranno in uniforme di Villa Grimaldi che quando esauriva il suo misero repertorio d’insulti militari le chiamava “puttane dell’estrema sinistra”.

La bruna e la bionda. Carmen e Marcia. Eccole lì con il loro passo sicuro e l’orgoglio di chi ha rischiato tutto. Quei corpi che parlano d’amore conservano l’amore di tutti i caduti. Quelle labbra che invitano al bacio si sono lamentate, ma non hanno detto neppure un nome di persona, d’albero, di fiume, di montagna, di bosco, di fiore, di strada. Non hanno detto nulla che servisse a orientare i boia. E quegli occhi che si inondano di luce e illuminano hanno pianto degnamente i nostri morti. Fanciulle in fiore e in minigonna degli anni settanta, ribelli nelle aule e nei costumi, sovversive dell’amore e delle idee, compagne nell’anima e nella speranza, con quanto orgoglio le contemplo, le mie eterne ragazze!”

(Traduzione di Ilide Carmignani)

© Luis Sepúlveda, 2000

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