Teniamo molto alla capacità di giudizio di MARINA CORRADI. Oggi affronta con la consueta lucidità il caso del suicidio in carcere dell’autore di un delitto avvenuto a Roma. Facendo memoria del martirio di santa Maria Goretti.
Caro Avvenire,
scrivo riguardo il caso dell’omicidio di Luca Varani, perché in questi giorni ho sentito del suicidio in carcere di uno dei due imputati, Marco Prato, per l’orrendo delitto.
Ora al di fuori di qualsiasi sentimentalismo o pietismo, da cattolico provo una certa amarezza per tutto ciò. Questo perché come esseri umani tutti siamo soggetti a sbagliare, anche molto; leggendo il Vangelo si capisce che il buon ladrone forse non era migliore di Marco, e correndo ai nostri tempi recenti lo stesso Alessandro Serenelli (l’assassino di Maria Goretti) forse stava “a pari demerito” con Marco. Voglio ricordare che nel momento del delitto sembra si siano consumate anche sostanze stupefacenti, e mi chiedo se questo non abbia alterato la lucidità di tutti i protagonisti.
Non voglio giustificare nessuno e voglio ribadire la mia profonda vicinanza ai genitori di Luca Varani, ma per favore consentitemi lo sfogo, neanche Alessandro Serenelli era stato massacrato così dai mezzi di comunicazione. In tutto questo mi domando se qualcuno in carcere ha teso una mano a Prato per evitare questo tragico epilogo. Da cristiano vi confido sinceramente la mia amarezza per tutto ciò che ho udito, letto e sentito di questa triste vicenda. Addirittura magari si crede cristiano chi dice che, se Marco si è suicidato, alla fine ha fatto la cosa più giusta, l’unica che doveva fare! Non sarà che il sale di cui parla Gesù stia perdendo di sapore?
Andrea Roma
Il suicidio nel carcere di Velletri di Marco Prato, il giorno prima della udienza del processo per l’omicidio di Luca Varani, è una vicenda di una dolorosità che lascia senza fiato. Per tutto: per la atrocità di un delitto che sconvolse Roma, per la casualità della scelta della vittima («Volevamo provare a vedere com’è, uccidere», dichiarò l’altro imputato, Manuel Foffo, già condannato con rito abbreviato a trent’anni); per la modalità feroce di un omicidio perpetrato con cento colpi di coltello e martello, durante un festino sessuale. Per tutto, davvero. E ora anche per il suicidio di uno degli imputati, in cella: un sacco di plastica, un erogatore di gas per i fornelli, e l’ha fatta finita.
Il Ministero di Giustizia ha aperto un’indagine per verificare se le procedure contro il suicidio fossero state rispettate. Ma Prato aveva già tentato di morire, appena dopo quella notte in un appartamento del Collatino. Aveva scritto anche un disperato testamento: «Fate festa, al mio funerale». Il lettore si chiede se qualcuno in carcere gli abbia porto una mano. Non manca in nessun carcere italiano un cappellano, e non dubitiamo che a Velletri ci si sia avvicinati a quel detenuto. Non sempre però è possibile penetrare nella solitudine degli uomini, e nella peggiore delle solitudini, quella del male. Continua a leggere →